Uno degli aspetti più interessanti dell’attuale scenario politico mondiale è la apparente rinegoziazione della definizione di verità fattuale. Nell’universo delle “fake news”, i fatti, anche quelli più evidenti, misurabili e misurati, sembrano aver perso oggettività ed essere diventati parte integrante della prospettiva politica. In realtà, chiunque abbia mai partecipato anche solo ad una manifestazione in piazza sa che la politica ha sempre giocato sulla ambiguità che inesorabilmente ruota intorno ai fatti: 1000 secondo gli organizzatori e 100 secondo la questura. Noi Italiani, nel nostro proverbiale disfattismo, abbiamo forse sempre pensato che la distorsione evidente e petulante della realtà fosse una nostra prerogativa, invidiando il celebre pragmatismo ed empirismo delle società anglosassoni. Se c’è un aspetto che l’attuale corrente populista dovrebbe quindi averci insegnato è che quando si tratta di politica, tutto il mondo è paese. Una misera consolazione.
Con tutti i caveat che ho appena esposto sulla obiettività dei fatti, mi azzarderò a considerare ormai palese anche per agli osservatori meno attenti che l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea non stia andando proprio secondo i piani – per usare un eufemismo. Secondo i fautori ancora molto numerosi del Brexit, il motivo principale di questa deviazione infausta è da attribuirsi al fatto che nemmeno l’attuale primo ministro crede abbastanza al Brexit. Del resto durante la campagna referendaria, Theresa May aveva sostenuto attivamente la fazione opposta, quindi le sue credenziali non sono effettivamente cristalline. Se May avesse avuto più fiducia in Brexit – dicono – la situazione ora sarebbe molto diversa. Ma che cosa vuol dire credere in Brexit? Ha senso, nell’epoca contemporanea, “avere fede” in un progetto politico? Per capire cosa vuol dire credere in Brexit, bisogna fare un passo indietro e analizzare quali sono le tre componenti che, all’atto pratico, legano uno Stato membro alla Unione Europea: la rappresentanza politica (ovvero l’adesione al parlamento Europeo), l’appartenenza ad una unione doganale, e l’accesso al cosiddetto mercato unico. Il quesito referendario chiedeva nero su bianco ai cittadini se avessero intenzione di rinunciare ed allontanarsi dal primo di questi tre pilastri (“Leave the EU”) senza nulla implicare sugli altri due, sebbene sia proprio su quei due aspetti che verte tutta la questione! Questa incompletezza dei termini è il primo problema fondamentale del Brexit.
La domanda di fondo che si è dispiegata dal referendum ad oggi è stata: è un bene per il Regno Unito abbandonare l’unione doganale e il mercato unico? Anche i più ferventi Brexittieri (come vengono chiamati qui, in un portmanteau tra Brexit e moschettieri) riconoscono che l’unione doganale e l’accesso al mercato unico hanno alcuni aspetti molto positivi che vorrebbero mantenere, rinunciando volentieri ad altri aspetti integrali che ritengono negativi e che vorrebbero quindi lasciar andare. L’Unione Europea, d’altro canto, ritiene che i due pacchetti non siano divisibili e non è disposta ad offrire versioni ridotte e smantellate dell’uno o dell’altro: o si prende tutto, o niente. Il Brexit “con accordo” è quello in cui il Regno Unito riesce a mantenere accesso ad almeno alcune delle componenti dei due pacchetti, mentre il Brexit “senza accordo” è quello in cui il Regno Unito esce da tutti e tre i componenti.
Il perno su cui tutto ruota, quindi, è il seguente: chi ha più da perdere da un Brexit senza accordo? Il Regno Unito o l’Unione Europea? Rispondere a questa domanda chiarisce chi delle due parti gode della posizione dominante nella negoziazione. Credere in Brexit vuol dire credere che tra i due sarà il Regno di sua maestà ad avera la meglio. Tra gli esperti economisti e scienziati politici c’è un enorme consenso che un Brexit senza accordo metterebbe in ginocchio il Regno Unito, portando probabilmente una recessione mai vista prima nella storia moderna. I Brexittieri, ovviamente, preferiscono ritenere questo non un fatto di scienza, ma una interpretazione politica slegata dalla realtà (viene spesso ripetuto che questo diffuso scetticismo verso gli esperti sia una fenomeno nuovo, ma chiunque abbia letto le disgrazie di Cassandra descritte da Omero sa che non è esattamente così). L’intero dibattito politico degli ultimi quattro anni verte intorno a questo concetto ed è impossibile da riassumere in poche righe, ma è palese che questa differenza di interpretazione è il secondo problema fondamentale del Brexit. L’Unione Europea si è prontamente e comodamente schierata dal lato degli esperti, non avendo concesso nemmeno una virgola al tavolo delle negoziazioni. Evidentemente, anche Theresa May ha fatto segretamente la stessa scelta, avendo ceduto, finora, su ogni singola richiesta. Un aspetto importante è che se si accetta di schierarsi dal lato degli esperti, convenendo cioè che un’uscita senza accordo sarà disastrosa per il Regno Unito, allora la questione diventa molto più prevedibile e in un certo senso rassicurante nei suoi sviluppi.
Visti in questa ottica, quali sono gli sviluppi futuri alla luce del recente fallimento dell’accordo proposto? Le opzioni attualmente sul tavolo sono sostanzialmente quattro: 1) chiedere all’EU di estendere il limbo corrente, spostando l’uscita ad una data futura; 2) cancellare tutto con la coda tra le gambe; 3) provare a rinegoziare un nuovo accordo; 4) uscire senza accordo il 30 Marzo. Prescindendo dalla volontà politica, alcune opzioni hanno delle complicazioni tecniche. Il problema di una estensione, ad esempio, è che andrebbe ad accavallarsi con le elezioni per il parlamento Europeo di Maggio, con insediamento a Luglio. La prima scelta da compiere, quindi non è l’estensione in sé, ma se il Regno Unito abbia o no desiderio di prendere parte alle prossime elezioni Europee (al momento ne sono fuori). Questa è una decisione fondamentale perché la prossima data utile per rientrare a far parte del parlamento Europeo sarebbe altrimenti il 2024 e, se anche il Regno Unito decidesse fra qualche mese di cancellare tutto, si ritroverebbe comunque esclusa dai tavoli politici di Bruxelles per i prossimi cinque anni. La seconda opzione, cancellare tutto, è ovviamente l’opzione preferita di chi è contrario al Brexit ma politicamente appare una strada molto complicata, un po’ per chiari motivi di orgoglio e in parte perché la corte Europea di giustizia ha concluso che la cancellazione deve essere definitiva e in buona fede. In sostanza, il Regno unito dovrebbe garantire di non voler ricominciare lo stesso circo fra qualche anno. Il discorso giuridico su come questa garanzia possa essere presentata semplicemente non esiste perché non è stato affrontato, ma probabilmente richiederebbe un altro referendum, con tempistiche che andrebbero ben oltre Luglio. Le ultime due opzioni (nuovo accordo o no accordo) sono quelle che scopriranno le carte, chiarendo se c’è un bluff in questa partita: l’EU dichiara di non avere nessuna intenzione a rinegoziare, mentre il Regno Unito dichiara di non avere nessuna paura ad uscire senza accordo.
Il lato positivo è che il termine si avvicina e, almeno in principio il 30 Marzo potremmo scoprire chi delle due fazioni aveva ragione. Arriva un momento in cui i nodi vengono al pettine. Con l’attuale scenario, visti i tempi, sembra che sarà comunque impossibile per il Regno Unito fare parte dell’EU nei prossimi cinque anni. Se il non-accordo si rivelerà effettivamente nefasto per il Regno Unito come sostengono tutti gli esperti, gli Inglesi si ritroveranno con una sola opzione possibile: l’opzione “Canossa” in cui il Regno Unito implorerà di poter tornare con un accordo tipo Norvegia. La sconfitta più umiliante per i Brexittieri e i populisti. Forse quella di cui abbiamo bisogno per il bene comune.
Nota: questo articolo, sotto un titolo diverso, è apparso anche sulla edizione de Il Foglio del 24/1/2019.