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Gli anticorpi monoclonali come cura per il COVID

In Italia gli anticorpi monoclonali sono entrati di prepotenza nel dibattito pubblico. Ci sono, a mio avviso, molti aspetti importanti che possono essere affrontati con un po’ più di chiarezza e sicuramente con molta meno passione. Ci provo qui senza dare troppi numeri, nè dettagli statistici, nè tecnicismi. Provo a metterla sul concettuale in maniera accessibile a chiunque.

Cosa sono i monoclonali?

Gli anticorpi monoclonali (mAB) sono, in soldoni, anticorpi sintetici che provengono non dal plasma di un essere umano ma creati in laboratorio per imitare fedelmente quelli umani. Si tratta, in sostanza, di costruire anticorpi contro una determinata proteina di modo da interagire con essa, bloccandola o talvolta perfino attivandola. Il prefisso “mono” indica che si tratta di una preparazione omogenea di anticorpo, tutto diretto verso lo stesso bersaglio. Gli anticorpi del plasma umano non sono “mono” ma sono “poli” e cioè sono semplicemente un mix molto variegato di tanti “mono” messi assieme.

I mAB non sono una scoperta di questi mesi. Esistono da diversi anni al punto che sono, attualmente, tra i farmaci più importanti al mondo sia per utilizzo che per rendita economica. La tabella qui sotto lista i 20 farmaci per introito venduti nel 2019.

Nome CommercialeMolecolaClasse
Humiraadalimumabmab
KeytrudaPembrolizumabmab
RevlimidLenalidomidechemical
OpdivoNivolumabmab
EyleaAfliberceptprotein
EliquisApixabanchemical
enbrelEtanerceptprotein
AvastinBevacizumabmab
StelaraUstekinumabmab
RituxanRituximabmab
xareltoRivaroxabanchemical
herceptinTrastuzumabmab
Prevnar 13vaccine
ImruvicaIbrutinibchemical
RemicadeInfliximabmab
IbrancePalbociclibchemical
BiktarvyBictegravir and otherschemical
tecfideradimethyl fumeratechemical
TrulicityDulaglutidechemical
GenvoyaTenofovir and otherschemical
The top 20 drugs by global sales in 2019 – Source Fierce Pharma

Come si vede dalla lista, ben 6 farmaci tra i primi dieci sono anticorpi monoclonali (facilmente riconoscibili dal suffisso nel nome del principio attivo). Altre due sono proteine ricombinanti (cugine cosiddette biologiche degli anticorpi monoclonali) e solo due su dieci sono farmaci di sintesi chimica a cui siamo abituati. Per dare una idea della cifra di cui stiamo parlando, il primo della lista è un anticorpo usato tra le altre cose contro l’artrite reumatoide e ha venduto nel 2019 farmaco per circa 20 miliardi di dollari. Il decimo della lista è un monoclonale usato in ambito oncologico e ha venduto nel 2019 farmaco per circa 8 miliardi di dollari.

Gli anticorpi monoclonali, quindi, non sono una innovazione commerciale degli ultimi giorni come invece sono i vaccini a mRNA – sono in commercio con incredibile successo da diversi anni e sono la fonte di introito più largo delle case farmaceutiche. I motivi sono due: funzionano molto bene contro malattie croniche (es malattie autoimmuni) che prima non si potevano curare; sono difficili da produrre su larga scala quindi il prezzo rimane alto. Il prezzo medio per una cura annuale di anticorpi monoclonali in pazienti oncologici è di circa 100 mila dollari.

Sebbene gli anticorpi monoclonali esistano da decenni, una cosa importante da notare è che nessuno di quelli presenti nella lista qui sopra è usato come antivirale o antibatterico. Infatti, nella lunga lista degli anticorpi monoclonali esistenti solo 6 su 540 sono diretti a terapia antivirale e tutti e sei contro HIV. Questo non vuol dire che le cose resteranno così per sempre e anzi esistono altre malattie virali su cui sono stati fatti studi e perfino clinical trials usando anticorpi monoclonali ma semplicemente è un fatto che in ambito virale il campo di ricerca è estremamente indietro e che la biologia per contenere un virus è molto più complessa.

Come si potrebbero usare gli anticorpi monoclonali contro il COVID?

Avendo chiarito che siamo in un ambito estremamente sperimentale, vediamo ora come i mAB sono stati studiati nel caso del COVID. Esistono due tipi di approcci: uno è usare mAB contro il virus, il secondo è usare i mAB per sopprimere la risposta immunitaria del paziente. Questo secondo approccio è in realtà (almeno secondo me) molto più interessante ma il dibattito italiano è stranamente incentrato sul primo approccio quindi inizio coprendo quello.

Nel caso di un mAB contro il virus, il principio d’azione dovrebbe essere chiaro anche a chi ha solo rudimenti di immunologia: un virus entra nel nostro corpo e gli anticorpi sono un modo per colpirlo e difenderci. Se aggiungiamo, con una bella flebo, anticorpi collaudati che sappiano riconoscere quel virus dovremmo, in teoria, sconfiggerlo. Questo è più meno il principio. Tutte le grandi industrie farmaceutiche hanno prontamente isolato anticorpi monoclonali in grado di inibire il virus in provetta e hanno provato ad usarli in terapia nei malati gravi o almeno ospedalizzati. Il motivo per scegliere malati gravi o ospedalizzati è ovviamente che ci risolverebbe una infinità di problemi: potremmo iniettare i monoclonali quando vediamo che il paziente inizia a prendere una brutta piega e, bam, sconfiggere la malattia.

Purtroppo nessuno dei tanti trials fatti in questo modo ha funzionato. Nessuno dei monoclonali contro il virus funziona quando la malattia è in fase tardiva. In linea teorica, ci sono due spiegazioni per questo fenomeno:

  1. In fase tardiva c’è troppo virus in circolo e gli anticorpi non ce la fanno a competere con il virus che si replica
  2. Le complicazioni della fase tardiva non dipendono dal virus ma dalla nostra risposta immunitaria che impazzisce di fronte a cotanto stimolo

Ci sono buoni motivi pensare che la seconda ipotesi sia quella più determinante ma è un discorso ancora aperto.

Sta di fatto che, fallito questo tipo di approccio, il secondo metodo di azione provato nei trials è stato dare i mAB non a stadio avanzato ma a stadio precoce – molto precoce. Questo secondo stadio è quello che ha dato qualche risultato, diminuiendo il rischio di ospedalizzazione e morte. I risultati sono stati inizialmente molto timidi, così timidi che in tempi normali sarebbero stati ignorati. Ma non siamo in tempi normali e gli studi sono andati avanti anche perchè quasi tutti gli studi sui monoclonali sono stati pre-pagati e finanziati dal governo Americano attraverso l’operazione Warp Speed. Trump aveva bisogno di trovare un cura COVID per vincere le elezioni e ha spinto l’acceleratore coi finanziamenti statali. Il resto del mondo ringrazia, ovviamente. Anche l’Europa ha investito in sviluppo ma in maniera più moderata e spingendo più sui vaccini.

Torniamo all’uso precoce. Senza inoltrarci sugli effetti, vediamo quale è il razionale. L’idea è di sconfiggere il virus sul nascere quando 1) ce ne è ancora poco in giro e 2) il sistema immunitario non è ancora impazzito nella sua over-reazione (vedi punti sopra). Per far questo, bisogna iniettare una flebo di monoclonali appena si suppone che ci sia stata infezione. Sappiamo che aspettare di vedere i sintomi è già troppo tardi. Regeneron e Eli Lilly sono le prime due case farmaceutiche ad aver usato questo approccio negli USA, soprattutto nelle case di riposo. Appena un focolaio parte nella struttura, i pazienti più deboli vengono infusi di monoclonali e solo in questi condizioni si vede una diminuzione del rischio.

Quali sono le limitazioni?

Avendo chiarito quale è il concetto e la prassi per la somministrazione, vediamo quali sono le limitazioni.

  1. L’approvigionamento. Come dicevamo prima questi anticorpi sono complicati da produrre. Gli USA, dove il cocktail regeneron è stato autorizzato in uso emergenziale, si parla di 300 mila dosi. Ora, ricordiamo che purtroppo 300 mila dosi non vuol dire 300 mila morti in meno perchè il trattamento va fatto ai primi segni di contagio. Anche ammettendo di trattare solo persone per cui il contagio è confermato, solo una piccola parte di quelle sarà effettivamente a rischio e solo una parte di quelle a rischio sarà effettivamente protetta dal farmaco. Nella migliore delle ipotesi quindi l’uso tempestivo su 300 mila ultra ottantenni si traduce in circa 20-30 mila ospedalizzazioni in meno, questo in tutti gli USA. Questo è ovviamente il caso perfetto che esiste solo sulla carta e da l’idea di come questi numeri, per quanto benvenuti, siano ben distanti da essere una cura. L’approvigionamento potrebbe aumentare col tempo ma ci vorrebbero mesi e – francamente- spero proprio che saremo più veloci coi vaccini che sono già in produzione.
  2. Il costo. Vuoi per il processo produttivo, vuoi per la quantità necessaria in una dose o trattamento, il costo dei monoclonali è molto alto. Parliamo dell’ordine di 10 mila euro a infusione. Questo costo sarebbe facilmente giustificato se potessimo usarli solo nei pazienti che stanno già male ma come abbiamo detto in quei pazienti non funziona e dobbiamo necessariamente usarli in maniera preventiva in pazienti che ancora non hanno nessun sintomo (e per i quali non possiamo nemmeno avere la certezza assoluta che siano infetti). Ricordiamoci che anche tra gli ultraottantenni, più del 80% guarirebbe comunque quindi stiamo necessariamente “sprecando” l’80% delle dosi.
  3. L’opportunità. Il fatto che l’approvigionamento e il costo abbiano queste limitazioni implica anche che l’opportunità è bassa. Per intenderci, non possiamo facilmente giustificare l’uso di una terapia di questo tipo in un 60 enne perchè sprecheremmo in quel caso non l’80% ma il 98% delle dosi.
  4. Il costo in termine di risorse sanitarie. Gli anticorpi vanno somministrati in ospedale o almeno in un contesto sanitario. Si tratta di fare una flebo non piccola sotto sorveglianza medica. Fare un trattamento di questo tipo richiede risorse che non sempre esistono.
  5. Le varianti. Qui ci sono due problemi. Il primo è che gli anticorpi monoclonali in un paziente immunocompromesso potrebbero favorire la generazione spontanea di varianti del virus. Questo purtroppo è un fatto già osservato con pazienti trattati con plasma (ricordate che i mAB sono un surrogato ridotto all’osso di plasma sintetico). La variante B.1.1.7 nota come Inglese è molto probabilmente nata in questo modo. Il secondo problema è che sappiamo che molte delle varianti attualmente in circolo sono meno soggette all’effetto dei monoclonali, alcune completamente immuni ai mAB. Se andiamo incontro ad uno scenario in cui il numero di varianti aumenta continuamente, i mAB anti COVID diventeranno quasi insomministrabili.

I monoclonali sono una alternativa al vaccino?

Sulla base dei punti qui sopra la risposta è chiara. No, gli anticorpi monoclonali non sono e non possono essere una alternativa al vaccino.

Sono troppo costose, troppo difficili da somministrare e meno efficaci in termini di salute pubblica. Sono uno strumento utile che può essere usato in gruppi di persone con particolari caratteristiche – ad esempio in coloro che non possono vaccinarsi. Se un paziente oncologico o immunodepresso non può vaccinarsi, i mAB potrebbero servire come surrogato della immunità di gregge offrendo un tipo di protezione alternativa. Questo è per esempio uno dei trial (PROVENT) con mAB di Astrazeneca che sono monoclonali che durano in circolo 6-12 mesi invece di 4-6 settimane.

E altri usi dei monoclonali?

La ricerca coi monoclonali continua. A parte i monoclonali “a lunga conservazione” di Astrazeneca appena citati, esistono dei monoclonali già usati in commercio contro le malattie autoimmunitarie il cui meccanismo di azione non è contrastare il virus ma abbassare le difese immunitarie impazzite (si parla di placare la tempesta citochinica). Questi hanno mostrato alcuni effetti in pazieni in fase tardiva che è esattamente il momento migliore per intervenire dal punto di vista delle risorse di un bene così prezioso.

In sostanza, in un futuro prossimo in cui i vaccini saranno diffusi, i monoclonali troveranno la loro nicchia che è importante e potenzialmente salvavita, ma molto piccola e sicuramente nemmeno lontanamente paragonabile ad i vaccini in termini di salute pubblica e lotta alla pandemia.

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