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Free as in freedom: la vera sovranità è open source.

Per decenni, gli Stati Uniti sono stati considerati i sommi sacerdoti del libero mercato, la terra dove la competizione era sacra e lo Stato restava in disparte. Quell’immagine appare ormai come un involucro vuoto, che maschera una realtà ben diversa e che dovrebbe farci finalmente rivalutare il Reaganismo e Thatcherismo per quello che realmente furono: una propaganda orwelliana in cui si usava la bandiera del libero mercato per nascondere una rivoluzione oligarchica. Trump — che del resto è nato professionalmente proprio in quegli anni di corruzione legalizzata — mostra ormai chiaramente come gli Stati Uniti abbiano lavorato per trasformarsi in feudi privati, dove le grandi corporazioni “gatekeeper” usano la loro ricchezza per catturare il processo normativo e soffocare ogni minaccia di innovazione.

In questo panorama, il vero spirito del libero mercato ha attraversato l’Atlantico, trovando una nuova e forse inaspettata dimora nel cuore burocratico di Bruxelles. È sicuramente vero che la forza dell’Unione Europea oggi non risiede in un esercito sterminato o in una singola azienda tecnologica dominante, ma nel suo ruolo di arbitro più disciplinato al mondo. Questa posizione affonda le radici nella tradizione accademica dell’ordoliberalismo, la quale insegna che un mercato non è “libero” semplicemente perché il governo è assente. Al contrario, un mercato privo di un solido quadro giuridico è solo un teatro in cui i potenti schiacciano i deboli. Regolamentando con fermezza i monopoli e imponendo una concorrenza leale, l’UE svolge la manutenzione essenziale richiesta affinché il libero mercato possa sopravvivere. Senza questi interventi, l’innovazione muore per mano degli operatori dominanti e il “libero mercato” diventa un mero slogan usato per mascherare un sistema di capitalismo clientelare, o crony capitalism.

Credo che nel 2026 osserveremo questo fenomeno con fulgida chiarezza nell’applicazione del Digital Markets Act da parte dell’UE. Mentre i MAGA americani condannano l’eccesso di regolamentazione europea come un attacco “socialista” al successo, i fatti raccontano una storia opposta. L’Unione non sta cercando di distruggere queste aziende, ma di riaprire le porte che esse hanno sbarrato. Quando l’UE obbliga un gigante tecnologico a permettere l’accesso ai concorrenti sulla propria piattaforma, sta ripristinando quel campo di gioco paritario che ha permesso a quegli stessi giganti di crescere inizialmente. È l’effetto Bruxelles in azione: usare il peso di un mercato di consumatori vasto e facoltoso per esportare lo Stato di diritto. È l’affermazione che nessuna azienda, indipendentemente dal suo bilancio, deve essere più potente del mercato stesso.

Questo cambiamento si è esteso anche all’ambiente globale attraverso il Meccanismo di Adeguamento del Carbonio alle Frontiere (CBAM). Per anni, la destra americana ha sostenuto che le normative ambientali fossero un fardello per l’economia. L’UE ha ribaltato questa logica, trattando le emissioni di carbonio come un’esternalità negativa — un costo nascosto che il produttore scarica sulla collettività senza pagarne il prezzo. Tassando il contenuto di carbonio delle importazioni, l’Unione costringe il mercato a essere onesto: i prezzi devono riflettere il costo reale di produzione, non solo i margini di profitto di un’industria protetta.

Senza il CBAM, il commercio globale premierebbe i produttori più inefficienti e inquinanti, solo perché autorizzati a ignorare i costi ambientali nei loro paesi d’origine. Mentre la critica statunitense dipinge questa misura come un ostacolo al commercio, la realtà ci dice che l’UE sta eliminando un sussidio implicito al carbonio di cui godono molte industrie americane e asiatiche.

Mentre negli Stati Uniti il lobbying sfrenato ha portato a una cattura normativa sistematica — dove le aziende scrivono le leggi che dovrebbero controllarle — la struttura dell’UE garantisce un’indipendenza tecnica che Washington ha smarrito. I dati dimostrano che nei settori regolamentati dall’Europa, dai servizi mobili ai voli aerei, i prezzi sono spesso più bassi e la scelta più ampia rispetto agli Stati Uniti, dove il consolidamento clientelare ha eliminato la vera rivalità.

In definitiva, l’attrito tra USA ed UE è il conflitto tra due versioni differenti di capitalismo. Il modello americano è scivolato verso una forma di clientelismo dove i giocatori più grandi riscrivono le regole del gioco a proprio piacimento. Il modello europeo, nonostante le feroci critiche d’oltreoceano e russe (che poi ormai sono la stessa cosa), è diventato l’ultimo difensore globale dell’ideale competitivo. Nelle aule di Bruxelles resta ferma la convinzione che il mercato appartenga agli innovatori e ai consumatori, non a chi può permettersi il maggior numero di lobbisti. Nel XXI secolo, i fatti dimostrano che per trovare un mercato veramente libero, bisogna guardare alla forza della regolamentazione europea.

Tuttavia, la regolamentazione, per quanto rigorosa, rimane una strategia difensiva se non è accompagnata dalla capacità di far emergere nuovi campioni industriali. La regolamentazione da sola è un’arma spuntata se l’Europa continua a pagare miliardi di euro in licenze a quegli stessi monopoli che dichiara di voler combattere. Per spezzare definitivamente il dominio del crony capitalism americano, l’UE deve smettere di essere un mero acquirente di pacchetti “chiavi in mano” e diventare il motore di un’alternativa sovrana.

L’esempio da seguire, paradossalmente, è quello della Cina degli ultimi vent’anni che ha mostrato la via con una sostituzione sistematica e spietata di Windows e macOS con distribuzioni Linux customizzate in tutta la Pubblica Amministrazione (Kylin OS). L’Europa deve avere lo stesso coraggio. Adottare Linux e formati aperti a livello governativo, scolastico e militare non è solo una scelta di risparmio, ma un atto di liberazione. Significa garantire che l’infrastruttura dello Stato non dipenda dai capricci di un consiglio di amministrazione a Seattle o dalle pressioni politiche di Washington. La stessa strategia viene oggi applicata all’intelligenza artificiale: mentre le grandi Americane blindano i loro modelli dentro una cassaforte d’oro e silicio, Pechino affonda con LLM open source che non sono solo prodotti tecnologici, ma armi geopolitiche: rilasciando modelli con pesi aperti e licenze permissive, la Cina sta erodendo il vantaggio competitivo delle Big Tech americane e creando un ecosistema alternativo su cui migliaia di aziende in tutto il mondo possono costruire senza chiedere il permesso a Trump. È una mossa che trascende la pura logica economica e tocca direttamente la sicurezza nazionale.

Nel 2026 l’Europa è a un bivio: se sceglie di continuare a dipendere da software proprietari americani per la propria infrastruttura digitale (dalla sanità alla difesa, dalla giustizia all’intelligence) sceglie di essere vulnerabile, esposta tanto alle decisioni unilaterali di un CEO quanto alle pressioni di un’amministrazione ostile. Comunque la si pensi politicamente, ormai dovrebbe essere chiaro che non possiamo più permettercelo.

L’open source, in questo contesto, non è più solo una filosofia da hacker idealisti: è una dottrina di sovranità tecnologica e l’Europa ha tutte le carte in regola per fare questo salto: la storia del software libero è profondamente europea, a partire dal kernel Linux creato dal finlandese Linus Torvalds. Se la Pubblica Amministrazione europea diventasse il primo grande mercato per il software aperto, creerebbe istantaneamente la domanda necessaria per far fiorire migliaia di aziende di assistenza, sviluppo e sicurezza informatica sul nostro territorio. Invece di esportare capitali per affittare software proprietario, investiremmo in competenze locali. È il momento di passare dalle multe alle installazioni: solo quando lo Stato europeo girerà su codice trasparente e verificabile potremo dire di aver sottratto il libero mercato alla rivoluzione oligarchica iniziata negli anni Ottanta.

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