Abbiamo trascorso i primi diciotto mesi di pandemia a fare confronti, con altri tempi o con altri Paesi. Abbiamo navigato mesi incerti essenzialmente con le stesse tecniche, e probabilmente lo stesso spirito, del lupo di mare che scruta la direzione e la forza del vento, o che fissa i nuvoloni per stimare la tempesta. Un picco dei casi in Spagna o Francia era necessariamente visto come prodromico a uno italiano; una nuova variante molto contagiosa in Inghilterra veniva rassegnatamente attesa sul continente.
Su questi confronti, che per un anno hanno offerto una parvenza di sicurezza nell’incertezza, ora non possiamo più fare nessuno affidamento. L’arrivo dei vaccini ha complicato la scena al punto tale da rendere ogni paragone troppo aleatorio. Perfino all’interno dell’Unione Europea Paesi diversi hanno adottato strategie vaccinali molto differenti: chi ha deciso di iniziare dagli anziani, chi dai giovani; chi ha usato restrizioni ad un vaccino per questa e quella fascia di età, chi per altre; chi è riuscito a vaccinare la maggior parte delle categorie a rischio, chi no; chi ha vaccinato i bambini, chi no. Tutte queste differenze si aggiungono ad altri strati di complessità che riguardano il comportamento delle persone (e.g.: chi indossa mascherine di stoffa, chi FFP2) o la gestione politica e sociale (e.g.: chi ha fatto affidamento sul lavoro a distanza, chi no). “Chi reagisce d’istinto, chi ha perso, chi ha vinto”.
Abbiamo aperto un secondo capitolo nel libro che racconta la storia della pandemia e dobbiamo adattarci alla nuova ambientazione. Fino a pochi mesi fa si poteva fare affidamento sulle analisi genetiche ed epidemiologiche fatte nel Regno Unito o in Danimarca: ora, ogni Paese è per sé e non può più fare affidamento su dati, analisi, strategie adottate altrove. In questo secondo capitolo ogni Paese è abbandonato a sé stesso e non esiste più quello che gli economisti chiamano “free riding”, cioè l’opportunismo di chi si può permettere di sfruttare lo sforzo altrui.
Un esempio di tutto ciò lo vediamo confrontando i numeri italiani con quelli inglesi. Nel mese di settembre 2021, il Regno Unito ha contato 910 mila casi – che, per inciso, equivale all’11% di tutti i casi avuti finora dall’inizio della pandemia – e circa 3.700 decessi. L’Italia nello stesso periodo ha contato circa 120 mila casi e 1.500 decessi. In sostanza, stando a questi numeri, l’Italia ha avuto poco più di un decimo dei casi del Regno Unito, ma quasi la metà dei morti. Come si spiega questa differenza? Ci sono varie chiavi di lettura, che portano a conclusioni anche diametralmente opposte e che devono essere usate quindi se non a giudizio della situazione, almeno a giudizio della sua complessità. La prima differenza che cattura l’occhio è la differenza nel numero dei test diagnostici effettuati: 25 milioni di test nel Regno Unito contro i 7 milioni in Italia nel mese di settembre. Si potrebbe quindi concludere che l’anomalia stia tutta lì: nella stima dei casi reali e nel fatto che il Regno Unito sia stato molto più ligio in questo sforzo. Un veloce calcolo ci potrebbe portare a concludere che se l’Italia avesse triplicato il numero di test fatti, raggiungendo la capacità britannica, allora il rapporto tra decessi e positivi sarebbe di nuovo in linea tra i due Paesi. Va aggiunto però che tanti dei test condotti nel Regno Unito sono stati fatti nelle scuole, dove le infezioni fortunatamente hanno conseguenze meno gravi; inoltre l’Italia ha già iniziato a vaccinare i dodicenni da mesi, mentre nel Regno Unito si inizierà fra due settimane e quindi non è scontato che test scolastici in Italia avrebbero gli stessi risultati di quelli inglesi.
Un’altra chiave di lettura potrebbe essere nell’età dei vaccinati: il Regno Unito è riuscito a persuadere la quasi totalità degli ultracinquantenni, mentre in Italia rimangono quei famigerati 3,5 milioni di ultracinquantenni riluttanti. Ovviamente una differenza nella vaccinazione di quella fascia può comodamente essere usata per spiegare l’apparente differenza di fatalità. Insomma, dovrebbe essere chiaro quanto sia complessa la situazione e quanto sia difficile trarre conclusioni sulla base di dati che sono incompleti e approssimativi. Certo, provvedimenti per stimare il numero reale dei casi esistono e sono basati su analisi campionarie: si invia a un campione statisticamente rilevante della popolazione un test e si chiede loro di comunicare il risultato. Nel Regno Unito lo si fa da mesi, con cadenza settimanale; in Italia, no.
Ora, un lettore un po’ cinico potrebbe obiettare che tutto ciò non importa più: che, con la vaccinazione, il numero di casi diventi irrilevante e che non valga la pena nemmeno prenderlo in considerazione perché, auspicabilmente, quasi tutti quei casi positivi saranno comunque poco sintomatici. Quello che conta, dice il nostro cinico ma pragmatico lettore, è tenere l’occhio sulle ospedalizzazioni. Questo è vero, perché alla fine le ospedalizzazioni sono il vero metro di giudizio sulla gravità della situazione ma, del resto, non era vero anche sei mesi fa? Non si finiva in lockdown perché i casi erano alti; si finiva in lockdown perché lo erano le ospedalizzazioni. Avere però il polso sui casi ci concedeva una opportunità in più: un po’ più di tempo per agire. Sappiamo che esiste una finestra di circa due settimane tra casi e ospedalizzazioni e rinunciare a contare i primi per soffermarsi solo sulle seconde implica anche rinunciare a quella finestra temporale utile. Per tornare alla metafora del lupo di mare, significa scappare dalla tempesta non quando si intravedono le nuvole all’orizzonte ma quando si sentono le prime gocce sul viso.
Nonostante la tanta voglia di stabilità, non sappiamo ancora se la situazione sia effettivamente stabile né quando potrà esserlo. Cambia settimanalmente quello che sappiamo del virus, man mano che la nostra conoscenza scientifica si affila; cambia con la stessa velocità ciò che sappiamo dei vaccini, in termini di protezione e durata; e cambia, ovviamente, anche il virus stesso, che continua a mutare. Esistono tecnologie che ci permetterebbero di avere un polso chiaro della situazione in termini di numero di casi, in termini di epidemiologia del territorio, in termini di genomica evolutiva del virus; queste tecnologie non sono state mai considerate con l’attenzione che meritano, non solo in Italia ma largamente all’interno dell’Unione Europea. Mai come in questo momento sarebbero utili, per evitare nuove possibili sorprese.
Si parla ultimamente di fase “endemica” della epidemia e temo che questa definizione abbia confuso i più. Endemico non implica benigno; non è solo il comune raffreddore ad essere endemico, lo sono anche la malaria o l’HIV. La fase endemica semplicemente implica che possiamo aspettarci contagi a frequenza periodica, ma nulla dice sulla severità degli stessi. Anche la fase endemica, in sostanza, richiede preparazione. Gli strumenti saranno forse diversi da quelli a cui ci siamo abituati finora ma vanno individuati e adottati.
Articolo apparso su Atlante, magazine Treccani.